L’apice della felicità

C’è un apice creativo
in cui ognuno di noi.
riesce a descrivere
le sue emozioni
le sue lacrime.

Le sue paure, le sue gioie
ed il suo cuore
al settimo cielo tocca
la felicità con l’indice
puntato al cielo.

A quel sole che brucia
a quell’acqua che ristora
le note d’una canzone gioiosa
riempiono il suo animo
colmo di felicità.

Pensa che adesso, forse,
potrebbe morire.
Ma le stelle son lontane
e non sa tradurre in note
quel che s’agita in lui.

 

Corpo segnato

Come un uccello senza piume remiganti
come un vento senza respiro e senza fiato
un fantino su un cavallo senza zoccoli e senza sella
un sole senza fuoco, un ghiacciaio come un rogo
frustrazione di un mondo che gira attorno a te
ma non ti osserva, come trasparente sulla spalla
tatuata, incomprensibile ai più, una stella.

Gli sguardi degli altri su di te son distanti
le loro voci s’accavallano a musiche lontane.
Sibilla sottovoce bisbiglia una nenia, quand’eri
piccino la cantava tua balia che di magico
non aveva nulla, se non il seno che pareva
immenso, ai tuoi  occhi golosi e stupefatti
agitavi le piccole mani come segnale di gioia.

Hai il corpo segnato da ferite profonde ed hai
lasciato che ti solchino l’animo, i tuoi passi incerti
come le tue parole e le tue oscillanti riflessioni,
come boe nella tempesta, ma tu cerchi un faro
che dia la rotta, un vento quieto e placido per
raggiunger alla meta, il porto sperduto;
un attracco sicuro.

Gesti a ripetere e labirinti sulla mia strada

Faccio gesti a ripetere, come se
non sapessi farne altri, stessi passi
stesse strade, stesse persone e le
stesse parole ormai vuote,
senza significato tutto ormai perduto,
tra le sinapsi allagate e confuse,
nei giorni quotidiani tutti uguali a se stessi,
un orologio ormai fermatosi sulla stessa ora,
lo stesso giorno, lo stesso anno maledetto,
quell’istante in cui s’è sospeso il mondo
ed in quel tragico momento di stravolgimento.

Ho perduto il filo rosso della mia esistenza,
ricucita con il filo d’altri ricordi, di coloro
che mi sono stati vicini o con cui
ho condiviso la di vita,
filo ricomposto con la memoria e le parole
di chi mi ha amato d’amore, o d’amicizia,
comete a portare i miei ricordi sommersi,
le mie pedine impazzite
d’un mosaico antico, e straniero.

Della terra d’Africa rimangono folate di sabbia,
sabbia negli occhi e nei ricordi sbiaditi o nei
sapori raffinati e squisiti, che mia  madre
mi donava, con tutto il suo amore mi dona ancora,
a trasportarmi lontano nel tempo.
Trascinarmi ai miei giorni beati
di bambino, ignaro delle angosce
a venire, scritte da crudeli Parche
dipingenti labirinti sulla mia strada.

Labirinto

La corsa del tempo

Sarà perché come noi tutti invecchio,
o perché rimane sempre meno tempo,
ma bastan due gesti ripetuti giornalmente,
senza pensarci troppo, senza ragionare,
stanchi gesti meccanicamente nati
per veder svanire un’ora evanescente,
come sabbia finissima in una clessidra.

Sarà perché a volte è poca la fantasia rimasta,
e troppe son le cose intorno senza importanza
che ti tolgono ossigeno, ed il metronomo
del frigo canta la stessa monotona canzone,
è un freddo militare, che bada solo al rancio,
troppe cose uguali ad un ripetitivo nulla,
utopia di una vita che pare fasulla.

La tosse dell’umanità severa e triste
che mozza teste e braccia, mostrando
la sua oscura faccia, in nome di un Dio sordo,
muto e cieco, e i santi intanto sono esposti
alla televisione ed i miracoli sono solo talk show
fanno ascolto in prima serata, ma basta un battito
di ciglia, e la fede già svanita vacilla.

Facciamo tutti parte della cosiddetta terza età,
ché la prima e la seconda erano mera vanità,
nell’illusione dell’esser eterni, barando giocavamo
nascondendo le carte nel mesto faldone,
che solo noi conoscevamo, solo noi aprivamo
i giorni amari, coprendo di sale e zucchero ferite.
i gatti giocano, intanto, col nostro amareggiato sorriso.

 

 

Silenzio…

Neanche una tua parola
magari anche pungente,
come sai pungere tu.

Questo assoluto silenzio
mi stordisce, mi confonde,
e mi lascia in balìa dell’amaro.

Avrei in me. vivo,  il desiderio
che tu scoprissi quelle mie
parole, quelle mie emozioni.

Invece, la tua assenza pesa,
ed è come scivolare in una grotta
scura, madida delle mie mille stille.

Perchè, qui è la parte migliore
di me, che tu così facendo non conosci
nascosta, come sei, sotto il manto

di cuscini,  e non vorrei far violenza
al tuo sacro sonno pomeridiano, amerei
che tu le scoprissi, come quadrifogli

nascosti in un campo di grano,
quel campo sono io, e la mia terra
è segnata da un profondo solco senza luce.

Eppure, questa seppur buia pagina,
che stranamente non ancora conosci,
è la parte più luminosa e migliore di me.

Volevo scrivere…

Volevo scrivere, ma il pensiero
s’è perso, così come sono perso io,
in questi anni troppo veloci, troppo rapidi
per la mia lentezza, per la mia stanca apatia,
s’ è perso per via l’orizzonte, l’obiettivo maestro,
la guida delle mie rotaie malandate,
che son treno ormai senza stazione,
il fischio che s’ode lontano, rimbomba
nel vuoto della mia desolazione.

Volevo scrivere e descrivere il mondo
impazzito intorno a noi, che siamo insieme
a questa umanità frastornata, rabbiosa
in cerca di Dio, ma Lui dov’è, dove si nasconde.
“Dio è grande” ululano rabbiosi di nero vestiti
uomini bestie feroci, lupi assetati di sangue,
lo stesso Dio, che dovrebbe accogliere mio padre?
Ma non so più disegnare ciò che è attorno a me,
né riconosco più l’universo umano che mi circonda.

Ho un’immensa frustrazione, catene strette al pensiero
affollato dalle immagini di questi uomini vestiti di nero,
col loro oscuro vessillo, o un altro folle dall’eccentrica capigliatura,
occhi a mandorla che uccide per capriccio, volendo superare
in crudeltà i suo già crudeli avi defunti, ma egli con la bomba H
ad intimorire i demoni, che nottetempo nel sonno l’assediano,
potrebbe incendiare il mondo, già di per sè una grande polveriera,
in attesa che un capriccioso duce, trasformi il suo vacuo trono
in una miccia, mutando l’oriente in un incendio planetario…

Madre

Madre, ora sei sola,
ma sei come una roccia,
nel tuo sguardo deciso
e dal dolore segnato,
vedo il vuoto nel tuo cuore,
ancora in cerca del suo viso
ormai perduto, e del suo amore.

Madre, ora sei sola,
su di te il peso del quotidiano,
sul grigio del cielo, il vuoto è ora:
nell’assenza della sua voce;
nell’assenza del suo odore;
nell’assenza di un compagno
di una vita, lungo lo stivale.

Sino alla terra svenduta e perduta
nelle rive mediterranee e del Varo,
nel cimitero dell’est, dorme la sua spoglia,
partita dalla Tunisia, alle soglie del deserto
riposa sul colle verde, fronte al mare aperto.
Dormo accanto a te, la notte e ti proteggo e caccio
le ombre chiaro-scure, d’una vita al suo braccio.

Cercando, invano, la poesia

DalìFollonica 17 ott. 15

Cercare poesia, negli oscuri
anfratti di piccoli gesti distratti,
nelle parole che volano non dette,
nei piccoli cenni quotidiani, sempre
uguali a se stessi, ormai banali.

Guardarsi allo specchio, ormai
estranei, che l’immagine rifratta
non t’assomiglia, quasi un’anima
che vaga nei tuoi occhi, distratta,
solo il dolore é il tua fedele compagno.

Ed il rumore di fondo di guerre
lontane, corpi martoriati, decapitati.
Rumore che tormenta l’animo quiete,
stravolge le cose, e le rende effimere,
una carezza in più esaspera, prostra.

Disperati, urliamo attendendo la fine
di un incredibile giro di giostra, che ci ha
portati lontano da quel ch’eravamo.
Cercando, invano, poesia troviamo, un viso
che non riconosciamo: di un uomo stremato.

Ma affamato!

Giorni a grappoli

Giorni a grappoli
la vita é vino
senza acini
di rabbia

e lascia porte spalancate
e letti sfatti dalla fatica
dal dolore di un’assenza

assenzio in calici di marmo
marmo bianco scolpito nelle vene
il sangue tenacemente langue
tra braccia ed arti in disarmo.

Spicchi di notte
la vita é sale
senza mare
né sabbia

e chiude angoli di luce
lenzuola nel buio accartocciate
su sé stesse su di noi
sulle nostre onde

e noi siamo acqua
bicchiere e labbra
e nulla ci distingue
ci separa da noi

dall’illusione di noi
dalle nostre labbra
d’acqua e di cristallo

immagine d’argilla
nello specchio
acino di sale

lingua di fuoco
sulla pelle
che geme ferita.

Scritta il 17/11/2003